un paese
Itinerari fotografici
«Mi ero accorto di non conoscere l’Italia se non attraverso dei libri o dei preconcetti,
e mi pareva che un paziente inoltrarmi nei luoghi,
nelle persone, negli interessi di tutta questa gente che aveva tante cose in comune con me,
fosse il solo modo per cercare, goccia nel mare, di entrare nella storia».
Cesare Zavattini, lettera del 26 marzo 1958, da Una, cento, mille lettere
Fondazione Un Paese dedica una cospicua parte delle proprie attività culturali alla valorizzazione non solo del patrimonio delle collezioni da essa gestite, ma anche al riconoscimento e alla messa in luce dell’importanza dell’eredità culturale consegnataci dalla tradizione fotografica che nel passato ha eletto Luzzara come luogo ideale di ispirazione artistica. Un paese (1953), opera fotografica di Paul Strand e Un paese vent’anni dopo (1973), viaggio fotografico di ritorno di Gianni Berengo Gardin negli stessi luoghi immortalati dal precursore americano, rappresentano i capostipiti di questa illustre tradizione, patrimonio consolidato e fonte di ispirazione per una fitta successione di nomi della fotografia italiana e internazionale. Elemento d’unione e punto di forza delle due opere precorritrici è stata certamente la figura intellettuale di Cesare Zavattini: suoi sono infatti i testi che scandiscono il ritmo della narrazione dei due volumi e che permeano di umanità e di incisività gli scatti dei due grandi maestri. Anche questo, ancora una volta, un geniale tocco di Zavattini per sottolineare con forza l’importanza di mettere in primo piano le persone, con le loro storie di vita, uguali e diverse fra loro, come a voler lasciare intendere che l’unica maniera per comprendere i fatti ed entrare nella grande Storia consista proprio nel partire dalle storie della gente comune, dalle storie di un paese.
«A Perugia, nel 1949 dove lo conobbi soltanto con una qualsiasi stretta di mano in una atmosfera cineastica per fortuna molto tesa, dove si cercava di dare al neorealismo una struttura sociopolitica che non si limitasse all’Italia e si connettesse con la storia dello spettacolo nei suoi esiti più progressivi, non avrei immaginato che quell’americano piuttosto taciturno qualche anno dopo sarebbe diventato uno dei personaggi più amati e stimati della mia vita. Me lo fece poi conoscere più da vicino il nostro comune amico Virgilio Tosi, finchè Strand mi scrisse onorandomi della richiesta di fare un libro insieme, nel quale le immagini e il testo nascessero dalla medesima necessità».
Con queste parole l’allora quarantasettenne Cesare Zavattini, scrittore affermato, conosciuto come sceneggiatore del neorealismo in coppia con Vittorio De Sica, descrive il suo primo incontro con Paul Strand, uno dei grandi fotografi americani che già all’epoca presentava una serie di prestigiose tappe biografiche, quali ad esempio una personale di opere esposte a New York, svariate pubblicazioni dedicate al New England, alla Scozia, al Messico, alla Francia e all’Italia, oltre che la presidenza della Frontier Film, la più importante delle case di produzioni indipendenti della Hollywood ai tempi di Roosevelt.
È proprio Strand che, quattro anni dopo il congresso dei cineasti, propone a Zavattini di aiutarlo nel realizzare un libro fotografico, con accompagnamento testuale, che sappia raccontare l’Italia di quel particolare momento storico. Il destino vuole che proprio in quegli anni Zavattini stia progettando con la casa editrice torinese Einaudi una collana editoriale intitolata Italia mia, concepita come reportage letterario-fotografico, di respiro neorealista, da realizzarsi non solo nelle più emblematiche città della Penisola, ma anche in piccoli centri e villaggi, con il solo scopo di ritrarre gli italiani e le loro vite, le loro abitudini, i loro sogni. Quando nel 1953 Paul Strand arriva in Italia e chiede aiuto a Zavattini per individuare il luogo adatto a ritrarre un’Italia non retorica, Zavattini intuisce che il proprio paese natale, Luzzara, così padano, così emiliano, così ricco di un’umanità antica e solida, è l’ambientazione perfetta per il progetto. Da questo binomio fra un americano che scopre l’essenza di un paese della bassa reggiana e un luzzarese che “riscopre”, interrogando e intervistando i concittadini, le proprie radici, nasce tra il 1953 e il 1955 il capolavoro intitolato Un paese, caso unico di “fotolibro” italiano, classico della fotografia mondiale, editato da Einaudi nel 1955 e primo e solo numero di quella collana ideata da Zavattini.
Per lo scrittore, l’occasione di Luzzara e del libro fotografico con Paul Strand, ma più in generale del progetto di Italia mia, significava la possibilità di ritornare a una lontana idea, radicata nella memoria: «Un film che vorrei fare: Il mio paese», aveva annotato nel suo diario del 1940-43. Un paese doveva costituire una tessera di un progetto molto più ampio, una sorta di ricognizione sull’Italia che facesse perno su una mescolanza di immagini e scrittura diretta, in grado di dar conto della vita quotidiana delle persone. Il titolo stesso della collana in cui apparve, rimanda ad altri progetti zavattiniani: per un film, nel 1951 (proposto subito a De Sica, e quindi a Rossellini); per un’inchiesta televisiva, nel 1974-1975 – mai arrivati a realizzazione. L’Italia dei mille campanili e delle tante culture, quella del mondo contadino e del mondo della fabbrica; dove l’identità di un luogo diventa simbolo di un Paese, sospeso fra tradizione e modernità; l’Italia quale emergeva allora in quegli anni nei romanzi di Volponi e nei resoconti di viaggio di Piovene, quale soprattutto era apparsa nei grandi poemetti e nelle riflessioni di Pasolini; ma se vogliamo anche l’Italia di oggi descritta e attraversata cinematograficamente da registi come Daniele Vicari e Carlo Mazzacurati; si raccoglie nei riflessi fisici e ideali di una storia per immagini, quella del paese di Zavattini.
Un paese, perfetta sintesi tra le 88 fotografie in bianco e nero di Strand e le essenziali e vivide presentazioni zavattiniane dei personaggi e dei luoghi luzzaresi, non esprime solamente la chiara volontà progettuale di ottenere un quadro dialogico e di scambio tra concezioni diverse dell’arte, tra immagine, appunto, e parola. Ciò che spinge i due autori a scegliere proprio Luzzara come soggetto della loro opera è la netta e condivisa percezione che il piccolo paese della bassa reggiana possa assurgere a emblema dello spirito di un intero popolo, quello italiano del dopoguerra, la cui intima essenza, cadenzata dall’alternarsi di quotidiane tribolazioni e di improvvisi sprazzi di semplice bellezza, è ancora indissolubilmente legata alla terra.
Sotto la regia del suo figlio più illustre, uno degli intellettuali più ispirati del Novecento italiano, Luzzara è divenuta così il simbolo del “paese” italiano. Un paese che esiste fotograficamente con la sua propria misura, in una visione finita e infinita al contempo, un microcosmo che assume una cifra più vera, autentica e universale. Riflessione su un’identità e narrazione dell’Italia stessa. Una serie di ritratti e di luoghi di concentrata forza, carichi del senso di una realtà comune, quotidiana, abitata da gente cordiale, immersa in un paesaggio urbano e rurale anch’essi comuni, priva di quei segni architettonici che per la loro unicità segnano così tante piccole e grandi comunità italiane.
Eppure, forse proprio per questo, un luogo capace di affidare all’inesorabilità dell’immagine fotografica quel carattere di dolce essenzialità da cui è potuto scaturire il racconto della propria semplice esistenza.
«Nel 1954 il famoso fotografo e cineasta americano Paul Strand venne a Roma da lontano e disse: “Facciamo un libro insieme?”. Lo abbracciai, lo portai a Luzzara, ve lo lasciai a lungo con i suoi occhi giusti e una macchina antica a treppiede. Fu così che nel 1955 Einaudi pubblicò Un paese. Vent’anni dopo un altro fotografo famoso, venuto però da vicino, Milano, mi rivolse anche lui, una sera in via Merici dove si discorreva dei naïf, la medesima domanda. Non ricordo se abbracciai Berengo Gardin, ma certamente qui c’è un secondo libro, le cui immagini sono degne del primo, intitolato Un paese vent’anni dopo, e stampato dallo stesso editore. Il primo presta più attenzione alla Luzzara agricola, contadina, un po’ lirica, come dice Berengo, e il successivo a quella più urbana con gli operai e gli interni di case. Ma sarà vero? Vero è che Luzzara esiste compendiandoli».
Cesare Zavattini, prefazione a Un paese vent’anni dopo, 1973
Nel 1973, esattamente vent’anni dopo il capolavoro di Paul Strand, Gianni Berengo Gardin ritorna a Luzzara, accompagnato da Cesare Zavattini. L’intento dei due autori è quello di interrogare, attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, la società italiana degli anni ’70 e di far emergere i cambiamenti che nel frattempo hanno inciso sul costume e sul modo di vivere delle persone.
Come ricorda in una nota al volume lo stesso Berengo Gardin: «Decisi di andare a cercare le persone che erano state fotografate da Strand, per curiosità, per vedere come erano cambiate dopo vent’anni. Loro non ricordavano quasi nulla di Strand, neanche il nome, non avevano mai visto né le fotografie né il libro, si ricordavano vagamente di “un fotografo americano con un grande cavalletto di legno”. Ma quando chiesi loro di farsi fare una foto nello stesso luogo dove li aveva fotografati Strand, tutti, ma proprio tutti, e senza che io dessi loro alcuna indicazione, si misero nella precisa posizione, nella stessa posa in cui erano stati fotografati vent’anni prima». Il risultato di questa collaborazione fra i due autori è il volume di Un paese vent’anni dopo, pubblicato, come fu per Un paese, dalla casa editrice Einaudi nel 1976. Questa volta, le parole di Cesare Zavattini non accompagnano le fotografie una ad una, ma si concentrano in un unico, corposo, testo introduttivo.
Anche in questo caso Luzzara assurge a specchio dell’intera società italiana ma non c’è più bisogno di dare voce a ogni singolo tassello di questa composita collettività. Gli effetti del tempo trascorso sono così evidenti da lasciar parlare da sole le immagini, così cariche di umanità e di una realtà agricola-contadina che tende ormai a scomparire. I contadini del 1953 sono diventati perlopiù operai, i campi si sono riempiti di fabbriche, la povertà è stata in gran parte rimpiazzata da una serena agiatezza, come dimostrano le foto degli interni domestici. In certi casi nulla è cambiato, talvolta la vita si è rivoltata contro gli uomini, come sembra voler comunicare la foto che immortala la celebre famiglia Lusetti, diventata icona della fotografia novecentesca grazie alla copertina di Un paese, ridotta a solo quattro soggetti umani. L’anima dei luzzaresi, e dunque degli italiani, non è mutata: nonostante i bambini siano diventati adulti e gli anziani più anziani, rimangono i loro volti e i loro sguardi diffidenti e fieri, fiduciosi e timidi.
La prefazione che Cesare Zavattini scrive è un racconto lucido e disincantato di un mondo, quello di Luzzara e dei suoi protagonisti, che seppur mitigato dal benessere nel suo rivelare una tenace spontaneità atavica, non smette di manifestare aspetti carichi di ancor viva poesia, di voglia di riscatto e progresso: «che cosa di straordinario», scrive Zavattini, «è successo dunque negli ultimi vent’anni da giustificare un altro libro? Niente e tutto, come altrove, Luzzara non è tagliata fuori dalle emozioni, dalle ragioni moderne, e sente che, schiacciato il bottone del video, quei dibattiti, quei dolori, quella gente in fuga, sempre più siamo noi. Cioè non manca la spinta a voler capire di più».