«A Perugia, nel 1949 dove lo conobbi soltanto con una qualsiasi stretta di mano in una atmosfera cineastica per fortuna molto tesa, dove si cercava di dare al neorealismo una struttura sociopolitica che non si limitasse all’Italia e si connettesse con la storia dello spettacolo nei suoi esiti più progressivi, non avrei immaginato che quell’americano piuttosto taciturno qualche anno dopo sarebbe diventato uno dei personaggi più amati e stimati della mia vita. Me lo fece poi conoscere più da vicino il nostro comune amico Virgilio Tosi, finchè Strand mi scrisse onorandomi della richiesta di fare un libro insieme, nel quale le immagini e il testo nascessero dalla medesima necessità».
Con queste parole l’allora quarantasettenne Cesare Zavattini, scrittore affermato, conosciuto come sceneggiatore del neorealismo in coppia con Vittorio De Sica, descrive il suo primo incontro con Paul Strand, uno dei grandi fotografi americani che già all’epoca presentava una serie di prestigiose tappe biografiche, quali ad esempio una personale di opere esposte a New York, svariate pubblicazioni dedicate al New England, alla Scozia, al Messico, alla Francia e all’Italia, oltre che la presidenza della Frontier Film, la più importante delle case di produzioni indipendenti della Hollywood ai tempi di Roosevelt.
È proprio Strand che, quattro anni dopo il congresso dei cineasti, propone a Zavattini di aiutarlo nel realizzare un libro fotografico, con accompagnamento testuale, che sappia raccontare l’Italia di quel particolare momento storico. Il destino vuole che proprio in quegli anni Zavattini stia progettando con la casa editrice torinese Einaudi una collana editoriale intitolata Italia mia, concepita come reportage letterario-fotografico, di respiro neorealista, da realizzarsi non solo nelle più emblematiche città della Penisola, ma anche in piccoli centri e villaggi, con il solo scopo di ritrarre gli italiani e le loro vite, le loro abitudini, i loro sogni. Quando nel 1953 Paul Strand arriva in Italia e chiede aiuto a Zavattini per individuare il luogo adatto a ritrarre un’Italia non retorica, Zavattini intuisce che il proprio paese natale, Luzzara, così padano, così emiliano, così ricco di un’umanità antica e solida, è l’ambientazione perfetta per il progetto. Da questo binomio fra un americano che scopre l’essenza di un paese della bassa reggiana e un luzzarese che “riscopre”, interrogando e intervistando i concittadini, le proprie radici, nasce tra il 1953 e il 1955 il capolavoro intitolato Un paese, caso unico di “fotolibro” italiano, classico della fotografia mondiale, editato da Einaudi nel 1955 e primo e solo numero di quella collana ideata da Zavattini.
Per lo scrittore, l’occasione di Luzzara e del libro fotografico con Paul Strand, ma più in generale del progetto di Italia mia, significava la possibilità di ritornare a una lontana idea, radicata nella memoria: «Un film che vorrei fare: Il mio paese», aveva annotato nel suo diario del 1940-43. Un paese doveva costituire una tessera di un progetto molto più ampio, una sorta di ricognizione sull’Italia che facesse perno su una mescolanza di immagini e scrittura diretta, in grado di dar conto della vita quotidiana delle persone. Il titolo stesso della collana in cui apparve, rimanda ad altri progetti zavattiniani: per un film, nel 1951 (proposto subito a De Sica, e quindi a Rossellini); per un’inchiesta televisiva, nel 1974-1975 – mai arrivati a realizzazione. L’Italia dei mille campanili e delle tante culture, quella del mondo contadino e del mondo della fabbrica; dove l’identità di un luogo diventa simbolo di un Paese, sospeso fra tradizione e modernità; l’Italia quale emergeva allora in quegli anni nei romanzi di Volponi e nei resoconti di viaggio di Piovene, quale soprattutto era apparsa nei grandi poemetti e nelle riflessioni di Pasolini; ma se vogliamo anche l’Italia di oggi descritta e attraversata cinematograficamente da registi come Daniele Vicari e Carlo Mazzacurati; si raccoglie nei riflessi fisici e ideali di una storia per immagini, quella del paese di Zavattini.
Un paese, perfetta sintesi tra le 88 fotografie in bianco e nero di Strand e le essenziali e vivide presentazioni zavattiniane dei personaggi e dei luoghi luzzaresi, non esprime solamente la chiara volontà progettuale di ottenere un quadro dialogico e di scambio tra concezioni diverse dell’arte, tra immagine, appunto, e parola. Ciò che spinge i due autori a scegliere proprio Luzzara come soggetto della loro opera è la netta e condivisa percezione che il piccolo paese della bassa reggiana possa assurgere a emblema dello spirito di un intero popolo, quello italiano del dopoguerra, la cui intima essenza, cadenzata dall’alternarsi di quotidiane tribolazioni e di improvvisi sprazzi di semplice bellezza, è ancora indissolubilmente legata alla terra.
Sotto la regia del suo figlio più illustre, uno degli intellettuali più ispirati del Novecento italiano, Luzzara è divenuta così il simbolo del “paese” italiano. Un paese che esiste fotograficamente con la sua propria misura, in una visione finita e infinita al contempo, un microcosmo che assume una cifra più vera, autentica e universale. Riflessione su un’identità e narrazione dell’Italia stessa. Una serie di ritratti e di luoghi di concentrata forza, carichi del senso di una realtà comune, quotidiana, abitata da gente cordiale, immersa in un paesaggio urbano e rurale anch’essi comuni, priva di quei segni architettonici che per la loro unicità segnano così tante piccole e grandi comunità italiane.
Eppure, forse proprio per questo, un luogo capace di affidare all’inesorabilità dell’immagine fotografica quel carattere di dolce essenzialità da cui è potuto scaturire il racconto della propria semplice esistenza.